sabato 9 agosto 2014

The art of Enkū

In questo post vorrei presentare brevemente al lettore un artista giapponese le cui opere singolari fanno capolino di tanto in tanto su internet e nei libri d'arte ma la cui esistenza rimane per lo più nell'ombra fuori dal suo paese.

Sto parlando di Enkū 円空 (1632-1695), il fabbricante di immagini buddhiste (仏師) itinerante. Vidi per caso una sua statua anni fa in un libro di arti asiatiche - uno dei pochi all'epoca tradotti in italiano, opera dei decani Nagahiro e Kuno - ma poco si poteva carpire su un artista i cui lavori appaiono quasi dei monstra a fianco di monumenti dell'arte giapponese come le sculture di Kūkai o Unkei. Naturalmente l'opera di Enkū appartiene a un'epoca molto diversa, più vicina a noi: quella Tokugawa (muore nell'era Genroku a 63 anni).

Le statue di Enkū sono note sia per la loro essenzialità stilistica, caratterizzata da grezzi natabori 鉈彫 (colpi di sgorbia) su blocchi lignei che non di rado conservano la loro forma naturale, sia per lo spirito rustico e al contempo familiare che sembra connotarle. È a quest'ultimo aspetto che le sue icone (buddhiste e non solo), ormai note come enkūbutsu 円空仏, devono la loro notorietà presso i collezionisti e il pubblico giapponese. Si ipotizza che Enkū abbia realizzato fino a 120.000 icone, oggi disseminate per il Giappone o perdute, mentre più di 5000 sarebbero catalogate e conservate.

Prima di mostrarne alcuni esempi spendo qualche parola sulla biografia di Enkū, che è stata per lo più ricostruita a posteriori grazie a testi come il Kinsei Kijin-den 近世畸人伝 (1790), "Vite di eccentrici della nostra epoca" e il più tardo "Vite di monaci eminenti - Continuazione" 続日本高僧伝 (1884). Nel primo testo compare anche una singolare illustrazione, in stile manga, che ritrae Enkū al lavoro (qui sotto)




L'immagine ritrae vividamente Enkū mentre con la sua roncola inizia a scolpire il viso di un re divino 仁王 nel tronco di un grosso albero vivo. Un aiutante regge la scaletta su cui l'artista si tiene, si direbbe precariamente, mentre quello che forse è il committente osserva la scena con un'espressione tra l'entusiasta e il preoccupato (l'episodio sarebbe realmente accaduto a Senkō-ji).

Una delle prime enciclopedie buddhiste giapponesi del XX secolo colloca Enkū nel lignaggio Rinzai 臨済宗, la corrente Zen più celebre dell'epoca Edo, ma non è chiaro su quali basi visto che fonti frammentarie ma coeve gli attribuiscono unicamente un'ordinazione Hossō 法相 ricevuta a 40 anni e successive trasmissioni Tendai 天台宗, una delle quali ricevuta proprio a Miidera 三井寺, il cuore della scuola Jimon 寺門. Queste contraddizioni diventano meno importanti se si tiene conto della ben nota difficoltà dei primi sistematizzatori moderni nell'inquadrare certe figure religiose pre-moderne in termini di lignaggio e di appartenenza. Enkū fu infatti un monaco itinerante (angya-sō 行脚僧) per quasi tutta la sua esistenza. Sebbene la scuola Zen 禅家 abbia contribuito a riportare in voga la pratica del pellegrinaggio e della questua, sembra che l'attività creativa e religiosa di Enkū si debba inscrivere piuttosto nel modello di ascetismo tradizionale dei culti della montagna 山岳信仰 e in generale fuori dalle maglie delle istituzioni templari. Enkū, come altri girovaghi - ma anche personalità note come Jiun Sonja 慈雲尊者 (1718-1804) - testimoniano il graduale affermarsi in epoca Edo di trend non rigorosamente settari e dalla vitalità interessantissima, pur nel contesto di quello che un celebre studioso definì il buddhismo funerario 葬式仏教 e decadente di età Tokugawa.

Si dice che, a seguito di un voto, durante i lunghi viaggi che lo porteranno fino alle montagne di Ezo (odierno Hokkaidō) egli abbia abitato unicamente grotte o ripari isolati. Sempre ad un voto si dovrebbe ricondurre la pratica di scultura seriale che lo impegnò tutta la vita. Questa pratica è attestata anche in tempi più antichi, di solito nel contesto di sādhanā esoteriche 密教 e con un carattere più stereotipato; il lavoro instancabile di Enkū invece non solo è vario e originale, ma sarebbe legato alle richieste di un'infinità di committenze locali e rurali, come testimonia la larga disseminazione delle sue statue in Giappone.

Dopo perigliosi viaggi, Enkū morì nella provincia di Mino (odierna prefettura di Gifu 岐阜県) non lontano da dove era nato. Si dice che l'ultima statua da lui realizzata sia stata un Kangi-ten 歓喜天 (in occidente più noto con nome indiano di Gaṇeśa) forse quello ancora oggi custodito nel tempio di Senkō-ji ove è venerato come hibutsu 秘仏 o "icona segreta". Lo stesso tempio, oggi di denominazione Shingon, conserva molte delle opere più mature di Enkū.


A sinistra un Sukuna a due teste, a destra un misterioso Kannon dalle mille braccia e al centro un favoloso Ugajin 宇賀神 che è una delle mie opere preferite di Enkū. Ugajin è una divinità sincretica che meriterebbe ulteriori approfondimenti, qui basti dire che nella forma rappresentata ha il corpo di un serpente avvolto in spire e la testa umana. La maniera in cui Enkū interpreta la sua immagine caratteristica è incredibile.

Dopo un paio di secoli di quasi-oblio l'opera di Enkū è diventata per gradi sempre più familiare ai giapponesi, specialmente nel contesto della riscoperta dell'arte popolare (mingei 民芸) in cui Yanagi Muneyoshi ebbe un ruolo importante. Su questo studioso consiglio questo articolo da Cipango (French Journal of Japanese Studies) che fa riferimento anche a Mokujiki 木喰, un altro celebre scultore seriale. Per vedere altre opere invece desisterò dal rubare immagini in giro per la rete e consiglio questo blog (invero un po' assurdo) in inglese che mette in mostra immagini sparse, molte in relazione con le esposizioni più recenti che si sono tenute in Giappone nel 2009 e nel 2013. Sulla vita di Enkū hanno fatto anche un film sul cui valore non sono in grado di pronunciarmi ma che mi sembra un po' così. Su youtube invece c'è il seguente documentario NHK, che consiglio:

domenica 22 giugno 2014

A tribute to the Yijing

Questo post è un semplice tributo ad un testo tra i più noti al mondo e a me molto caro, i Mutamenti di Zhou 周易 o Classico dei Mutamenti. Nella sua cultura d'origine questo libro, antico e stratificato, da più di 2000 anni costituisce una miniera inesauribile di conoscenza e di ispirazioni. Propongo qui un bel passaggio, a un tempo esplicativo e poetico, dedicato al senso di quest'opera e tratto dai commentari Xi Ci. Più in basso offro la traduzione inglese, datata ma illustre, del grande sinologo James Legge:


繫辭下:
易之為書也不可遠,為道也屢遷,變動不居,周流六虛,上下无常,剛柔相易,不可為典要,唯變所適,其出入以度,外內使知懼,又明於憂患與故,无有師保,如臨父母,初率其辭,而揆其方,既有典常,苟非其人,道不虛行。

Xi Ci II:
The Yi is a book which should not be let slip from the mind. Its method (of teaching) is marked by the frequent changing (of its lines). They change and move without staying (in one place), flowing about into any one of the six places of the hexagram. They ascend and descend, ever inconstant. The strong and the weak lines change places, so that an invariable and compendious rule cannot be derived from them; - it must vary as their changes indicate. The goings forth and comings in (of the lines) are according to rule and measure. (People) learn from them in external and internal affairs to stand in awe. (The book), moreover, makes plain the nature of anxieties and calamities, and the causes of them. Though (its students) have neither master nor guardian, it is as if their parents drew near to them. Beginning with taking note of its explanations, we reason out the principles to which they point. We thus find out that it does supply a constant and standard rule. But if there be not the Proper men (to carry this out), the course cannot be pursued without them.

Il grande sinologo scozzese J. Legge (1815-1897)
con tre allievi cinesi. (da Wikipedia)